sabato 10 dicembre 2016

La Congiura dei Baroni del 1485-1487. La morte dei Petrucci, signori di Carinola

Miniatura: Ferdinando I equestre


La bella iniziativa culturale che si terrà a Carinola domani, 11 Dicembre 2016,  sul processo che determinò la condanna e la morte di Francesco Petrucci, conte di Carinola, e dei suoi familiari, dopo la congiura dei baroni, mi ha spinto ad anticipare un po' la marcia sulla mia tabella, ma è solo una piccola deviazione per permettere ai lettori di capire cosa si cela dietro ciò che vedranno domani. Chiaramente l'argomento sarà ripreso a suo tempo ed ampliato. 
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La storia è nota: durante la seconda Congiura dei Baroni del 1485-1487, la più cruenta, contro il re Ferrante d’Aragona, i Petrucci, signori di Carinola, furono accusati di alto tradimento verso la Corona e giustiziati senza pietà. Quello che è meno noto sono le motivazioni che si celano dietro questo episodio così spietato, che ancora oggi lascia il lettore con molti dubbi.
Dopo questa seconda congiura, Ferrante è stato classificato da molti storici dei secoli successivi come un sovrano crudele e spietato perchè la storiografia dei secoli successivi si basò, più che altro, sul libro di Camillo Porzio. Ma quello del Porzio non è l’unico testo da cui attingere le informazioni sulla vicenda; esistono altri documenti di prima mano da cui attingere informazioni e che possono aiutare gli studiosi a ricostruire con molta precisione l’avvenimento e le condizioni in cui esso nacque, crebbe e si sviluppò. Sono le fonti diplomatiche, ossia le relazioni che gli ambasciatori di altri stati italiani presso il Regno di Napoli inviavano ai loro signori, informandoli passo per passo di tutto ciò che accadeva nel Regno, con date e ricchezze di particolari.  

Gli ambasciatori residenti a Napoli erano tre: Giovanni Lanfredini, ambasciatore fiorentino che relazionava a Lorenzo il Magnifico e ai Dieci di Balia, poi sostituito da Bernardo Rucellai; Battista Bendedei, ambasciatore ferrarese che relazionava a Borso d’Este; Branda Castiglioni, ambasciatore milanese che relazionava a Ludovico Sforza.

Che Ferrante non amasse i baroni regnicoli era risaputo. Erano diventati troppo potenti, qualcuno più dello stesso re, ed ostacolavano qualsiasi tentativo di riforma per l’ammodernamento del regno in favore delle nuove classi imprenditoriali: mercanti, banchieri, artigiani che avrebbero portato nuova linfa, sia sociale che economica, in un regno troppo stanco e provato. Il Regno di Napoli ne aveva molto bisogno perché dal 1478 al 1484 aveva affrontato ben quattro conflitti che avevano prosciugato tutte le risorse regie e quelle dei cittadini: il conflitto contro Firenze (1478-1480) quello contro i Turchi per la liberazione di Otranto (1480-81), quello contro la Serenissima che aveva attaccato Ferrara ed il cui duca era genero di Ferrante (1482-1484) ed infine quello di nuovo contro Venezia che aveva invaso la costa pugliese ed attaccato Gallipoli.

Le riforme fiscali si rivelavano necessarie ma si rivelava necessario anche un netto ridimensionamento delle proprietà feudali a favore della Corona, rendendole demaniali. Erano finiti i tempi delle elargizioni di feudi e terreni a questo e a quello, ora bisogna riportare tutto sotto l’egida della Corona.   Ferrante era ben determinato a portare avanti questo progetto e più di lui lo era suo figlio Alfonso, Duca di Calabria, che aveva un odio sviscerato per i baroni, da cui si sentiva defraudato di potere, di beni e feudi. 
Dal 1484 iniziarono le prime confische. I primi ad essere colpiti furono i condottieri d’altri stati che avevano possedimenti nel Regno e che non avevano servito il sovrano nei modi richiesti. 

Nel 1485 molto scalpore fece l’arresto dei figli e della sorella del defunto Orso Orsini, duca di Ascoli, a cui seguì la confisca dei beni. L’accusa era quella che in realtà i figli dell’Orsini non erano suoi figli e non avevano diritto all’eredità. Poi fu la volta del conte di Montorio, più volte convocato da Alfonso a presentarsi e mai presentatosi. 

Questi provvedimenti reali allarmarono grandemente i baroni che, nel timore di perdere i loro stati, corsero ai ripari. I maggiori baroni del Regno maturarono l’idea di deporre Ferrante e impedire la successione al trono del figlio primogenito Alfonso, ritenuto più pericoloso del padre. I ribelli si assicurarono la collaborazione dei più influenti personaggi di corte: Antonello Petrucci, segretario regio, e i suoi due figli Francesco, conte di Carinola, e Giovanni Antonio, conte di Policastro; Francesco Coppola, conte di Sarno e banchiere, maggior finanziatore della Corona; Giovanni Pou, uomo di fiducia di Ferrante, e, in misura minore, Aniello Ariamone consigliere e ambasciatore regio.

Furono proprio Antonello Petrucci e Francesco Coppola le anime della congiura e durante i processi emerse come i due alimentassero le paure dei baroni e li sobillassero contro Ferrante. Ma la congiura non si rivelò subito tale; all'inizio ebbe piuttosto carattere di cospirazione, con incontri notturni in luoghi diversi, perché i congiurati non ebbero subito chiaro la strategia da seguire per liberarsi di Ferrante. Solo più tardi e dopo diversi incontri si intravidero le vie da percorrere. Le vie da seguire erano diverse: appellarsi al papa chiedendogli la difesa della loro sicurezza o alla Serenissima; far scendere in Italia Renato d’Angiò quale pretendente al trono oppure conservare la dinastia aragonese, offrendo  però la corona al secondogenito di Ferrante, Federico d’Aragona

Ferrante sottovalutò le voci di una cospirazione nei suoi confronti finché non si rese conto che i baroni avevano trovato appoggi esterni al Regno, in primis presso Papa Innocenzo VIII, i quali potevano creargli non pochi problemi. Cercò un accordo con i baroni, dialogando con loro e giungendo persino a spostare la sua corte a Foggia, quando i baroni decisero di incontrarsi a Miglionico, terra del principe di Bisignano, per stare loro più vicino e per tenerli sotto controllo. In queste prove di dialogo gli emissari regi erano proprio i più tenaci congiurati ossia Antonello Petrucci, Giovanni Pou e Francesco Coppola, i quali furono costretti dalle circostanze ad un pericoloso doppio gioco. Il Petrucci, i suoi figli e il Coppola si incontravano frequentemente con i congiurati anche a casa del Petrucci stesso a Napoli, in una "camera terragna". 

Per ben tre volte, gli ambasciatori scrissero ai loro governi che l’accordo tra Ferrante e i baroni era stato raggiunto, ma per tre volte dovettero smentire. Nessun accordo fu raggiunto.

La ribellione fu resa palese quando molti baroni innalzarono la bandiera della chiesa nei loro feudi e il 24 ottobre 1485 il papa pubblicò una bolla con i nomi dei signori che si erano appellati a lui per essere difesi dalle ambizioni egemoniche del re. Allo stesso tempo, truppe pontificie si stanziarono ai confini del regno e altre erano già al suo interno.

La strategia che Ferrante adottò nei confronti dei baroni fu quella di “romperli o contaminarne qualcuno”, come scrisse il Lanfredini ai Dieci di Balia, e perciò quando ricevette per ben due volte l’invito del conte di Carinola e del gran Siniscalco a recarsi a Sarno per un incontro chiarificatore, il re accettò. Ma preferì non andare oltre Nola, come probabilmente gli era stato suggerito da un informatore segreto, e questo gli permise di sfuggire a un doppio tentativo di agguato alla sua persona. I ribelli avevano intenzione di far giungere il re a Sarno e poi catturarlo “come lo bracco alla quaglia”. 

Non è chiaro chi fosse stato l’ideatore di questo piano; dalla deposizione dei figli del Petrucci si rileva che il loro padre non ne sapesse nulla, ma che una volta appresa la notizia, tacitamente l’approvasse. Paolo Ferillo, fiduciario del principe di Bisignano, attribuisce invece l’idea della cattura proprio ad Antonello Petrucci e a Francesco Coppola. Da altre testimonianze al processo, emerge che i baroni avevano animo di catturare anche Alfonso il 29 maggio 1485, durante il battesimo del figlio di Roberto Sanseverino, principe di Salerno, ma Alfonso vi sfuggì perché al suo posto presenziò il fratello Giovanni, cardinale. I baroni riuscirono invece a prendere l’altro figlio di Ferrante, Federico d’Aragona, il 19 novembre di quello stesso anno, sempre a Salerno, quando, durante una celebrazione, i baroni alzarono gli stendardi della Chiesa. Federico fu catturato insieme ad Antonello Petrucci e al Pou (!) e tenuto prigioniero. Riuscì a fuggire da Salerno solo qualche settimana più tardi, aiutato, pare, da un connestabile della città.

L’episodio della cattura del figlio Federico fece rompere ogni indugio a Ferrante, che aveva sempre resistito alle incitazioni del figlio Alfonso di colpire i baroni, ed iniziò la sua guerra aperta contro di loro. Ferrante affidò le proprie squadre al comando dei figli Alfonso, Federico e Francesco e al nipote Ferdinando Vincenzo e più tardi poté contare anche sugli aiuti che giunsero da Firenze, Milano e dai parenti di Spagna e Ungheria.

A questo punto il lavoro diplomatico si intensificò e si cominciò a parlare di pace tra le due parti, ma i punti critici non furono superati, ossia la sicurezza dei baroni e il pagamento del censo annuo che Ferrante avrebbe dovuto pagare alla Chiesa. Ferrante non volle pagare il censo e i crimini commessi dai baroni verso la sua persona non potevano garantire la loro sicurezza.

I baroni, per meglio rafforzare le loro alleanze contro Ferrante, ricorsero a uno strumento molto in voga a quei tempi: l’alleanza matrimoniale. Furono fatti decine di matrimoni tra le famiglie più potenti per vincolarsi tra loro e insieme combattere il re. Ma Ferrante non stette a guardare. Anche lui organizzò un matrimonio.

Il 13 agosto 1486 si doveva celebrare il matrimonio di Maria Piccolomini, nipote di Ferrante, con Marco Coppola, figlio di Francesco, per porre così fine alla dura lotta tra il sovrano e i baroni. O almeno così pensavano i più. Ma non conoscevano l'animo vendicativo e determinato di Ferrante. 
Gran parte della feudalità del regno era radunata nella sala grande di Castelnuovo per assistere a questo matrimonio, ma invece della sposa Ferrante fece entrare le sue guardie. Erano presenti anche i tre ambasciatori che ebbero due notizie di prima mano: la prima fu che da tre giorni era stata firmata la pace con il papa per mano di Giovanni Pontano e Gian Giacomo Trivulzio, emissari del re; la seconda era l’arresto, in atto, di alcuni cospiratori presenti. Ferrante stesso diede i loro nomi: Antonello Petrucci e sua moglie Elisabetta Vassallo, il figlio Giovanni Antonio Petrucci, Francesco Coppola conte di Sarno con rispettivi figli, fratelli e donne. 
Francesco Petrucci non era presente e si trovava nei suoi possedimenti di Carinola, dove fu raggiunto, arrestato senza resistenza e portato a Napoli.

Accusati tutti di lesa maestà e crimini contro la persona del re, i Petrucci furono spogliati dei loro beni e titoli. Il processo nei loro confronti iniziò quasi subito, il 20 agosto. Al termine dell’istruttoria, il notaio Giovanni del Galluzzo, procuratore fiscale, lesse le loro rispettive confessioni e diede a ciascuno dieci giorni di tempo per organizzare la difesa, ma le prove raccolte e accumulate a loro carico erano talmente tante che una qualsiasi difesa sembrava molto difficile.
Il verdetto fu chiaro: doveva “essere levata ad ogne uno de lloro la testa, che in ogne modo, la loro anima sia separata dal corpo”.

I primi ad essere giustiziati furono i figli del Petrucci. Giovanni Antonio fu decapitato, mentre Francesco, “lo pegio de tutti”, fu sgozzato e poi squartato.   Francesco era stato coadiutore del padre nella cancelleria regia e questo incarico gli dava accesso a documenti e informazioni  che egli metteva a disposizione dei congiurati e che fecero di lui l’elemento forse più importante della congiura. Accusarlo di alto tradimento fu l'amara conseguenza.   
In realtà tra i due non correva da tempo buon sangue e le cause della loro animosità vanno ricercate nel freno che Ferrante metteva alle richieste Francesco che voleva ingrandire la sua posizione economica e sociale. In particolare, Francesco aveva anche il dente avvelenato con Ferrante perché il re non gli aveva dato il permesso di deviare un corso d'acqua a Carinola per le sue necessità, adducendo come motivazione che questo avrebbe compromesso la caccia. A Ferrante, dal canto suo, dava molto fastidio l'intraprendenza del giovane conte carinolese che, per dispetto o per spregio, voleva aprire a Carinola una cavallerizza, mettendosi in concorrenza con quella del re già presente sul territorio carinolese. 

La descrizione della sua esecuzione ce la fornisce il Bendedei, ambasciatore ferrarese, che lo scrisse al suo signore in un dispaccio dello stesso giorno. La descrizione del Bendedei è riportata da Elisabetta Scarton nel suo studio. 

"Dopo quattro mesi di carcere, il trentenne conte di Carinola fu condotto sul luogo dell’esecuzione. Disteso su una carretta trascinata da una coppia di buoi, attraversò tutti i Sedili di Napoli per approdare alla piazza del mercato. Qui, inginocchiato su un palco, dopo essersi confessato ed essersi doluto della sua sorte con gli astanti, il ministro della giustizia gli tagliò la gola. Per enfatizzare ulteriormente la colpa, il suo corpo fu squartato e posto fuori città, nei crocevia delle quattro arterie principali. Il fratello Giovanni Antonio, conte di Policastro, raggiunse a piedi la piazza e attese l’esecuzione senza mai proferire parola". 
Antonello Petrucci e Francesco Coppola continuarono a languire nelle carceri di Castelnuovo, fino alla decapitazione pubblica che avvenne l’11 maggio del 1487.
 cdl


Testi Consultati
Jerry H. Bentley : Politica e Cultura nella Napoli Rinascimentale - Napoli, 1995
Caminllo Porzio: La congiura de’ baroni del regno di Napoli – Napoli, 1821

Elisabetta Scarton: Poteri, relazioni, guerra nel regno di Ferrante d’Aragona – accademia. edu

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